Ambigous Reality

Nel tempo di quel che possiamo definire come “surrealismo decadente”, accade che si sia sempre più spesso indotti a chiedersi: quel che vedo è reale o frutto di manipolazione fantastica di uno straccio di realtà?
A mettere un punto fermo su questo aspetto della nostra realtà è Damien Hirst che a Venezia, in occasione della 57° Biennale d’arte inauguratasi a Maggio di quest’anno, ha presentato una epocale mostra del fantastico (Fondazione Pinault Punta della Dogana: Treasures from the Wreck of the Unbelievable) che, lasciandosi alle spalle qualsiasi preoccupazione di ruzzolare o raspare nel mondo del kitsch, accede a sfere di totale iperrealtà. L’invenzione e costruzione di un evento totalmente inesistente quale la scoperta di un relitto marino risalente ad epoca antichissima, conferisce la stura per una “epopea” artistica incontenibile. L’artista mette in scena una narrazione leggendaria sospesa tra realtà e irrealtà o, meglio, surrealtà.
Un legato testamentario nei confronti del nostro mondo e della nostra società ormai schizofrenicamente divisa tra mondo del reale e mondo virtuale, tra frammenti di reale e viaggio nel surreale.
La presente mostra dal titolo Ambiguous Reality, che ha preso le mosse a Gennaio a Los Angeles presso l’Istituzione Culturale Los Angeles Art Association, è stata concepita proprio con l’intento di porre lo spettatore di fronte al dilemma di cosa stia veramente vedendo o percependo sia in termini puramente visuali, sia in termini concettuali e di indurlo a porsi domande sulla società contemporanea e sulla sua deriva verso un distacco dalla realtà tesa a trasfigurare il reale ed anzi a mascherarlo col sogno e con la leggenda: a far diventare “leggendaria” un qualcosa che di epico, a volte, non ha nulla.
Il mito della bellezza e della gioventù a tutti i costi, il mito del potere, la possibilità di manipolare le masse e di indirizzarle verso desideri effimeri ed irreali, è quello a cui stiamo assistendo da decenni e che sta toccando apici forse neanche prevedibili.
Che cos’è l’hackeraggio in se stesso se non manipolazione della sia pur virtuale realtà di internet?
Ci troviamo ad assistere impassibili alla manipolazione e al condizionamento di elezioni politiche nei paesi occidentali, alla totale falsità delle notizie di stampa e dei media ed altro ancora.
Lo splendido libro di Philippe Roth incentrato sul problema del diasporismo ebraico dal titolo “Operazione Shylock”, gioca tutto su questo senso di dissimulazione, di inganno, di “duplicazione” della realtà.
È lo stesso scrittore Roth che, giunto in Israele per una conferenza, si trova a fare i conti col suo “doppio” vale a dire con un impostore che, a causa di una somiglianza fisica irreale quanto tutta la storia, si presenta al pubblico come lo scrittore Roth e con tale assunta identità, gli si sostituisce in conferenze ed incontri con la stampa, portando avanti un discorso sulla diaspora ebraica che non è affatto condiviso dall’autentico Roth. Eppure il vero Roth ne viene quasi affascinato e non riesce a denunziarlo e si fa trascinare in questo perverso e assurdo gioco di duplicazione di personalità: “…Pipik mi seguirà per il resto dei miei giorni, e per sempre io abiterò nella dimora dell’Ambiguità.” (Roth)
Nella presente mostra 12 artisti di cui 6 Americani e 6 Italiani sono stati invitati a cogliere aspetti di realtà frantumata, frattali di realtà, ambiguità del reale e a confrontarsi con una linea di demarcazione molto sottile tra realtà e irrealtà, non tanto come dicotomia tra realtà e fantasia, ma piuttosto come acquisizione percettiva distorta, ambigua, incerta. Segno marcante della società divisa tra vero e falso, tra verità e menzogna, tra autenticità della percezione e distorsione della stessa. La manipolazione della realtà e la sovrapposizione di realtà virtuali a quelle reali, gli enigmi, i paradossi sono tutti aspetti che l’arte deve sceverare perché anch’essa è parte della società contemporanea. La messa a fuoco di una società in cui la fragilità della condizione umana è sospesa tra realtà e sogno, tra concretezza ed evanescenza è resa per immagini visive che pongono dubbi sulla loro stessa percezione: forse la migliore “fotografia” della società contemporanea divisa tra incongruità, ambiguità, enigmi e paradossi.

Tre fotografi aprono il ciclo dell’immaginario e dell’impossibile:
Jeff Burke fotografo e grafico pubblicitario Americano o piuttosto collezionista maniacale di gioielli falsi e di bijouteria, materiali che fungono solo come elementi di base per operare una trasformazione completa dell’oggetto in altro da sé. Burke lavora sulla trasformazione del reale in irreale o virtuale. Esegue e produce fotografie attraverso un procedimento piuttosto lungo che parte dallo smembramento completo dell’originario oggetto reale in una molteplicità di pezzi autonomi. Questi oggetti snaturati ed estrapolati dal loro originario assemblaggio, vengono fotografati singolarmente per poi iniziare una lunga procedura di ricomposizione e di ricostruzione a computer dei fotogrammi riproducenti i singoli pezzi in un nuovo e inedito assemblaggio tale da ottenere una nuova ed inedita immagine che acquisisce senso e valore in sé. La trasformazione da reale a virtuale e da virtuale di nuovo a reale è quel che Burke indaga con la sua arte: il riassemblaggio virtuale dei fotogrammi dà origine ad un nuovo soggetto fotografico che inizia a vivere di vita propria: nasce così una realtà composita e del tutto inedita passando da un virtuale all’altro, ma terminando con una soluzione estetica formata da un nuovo oggetto reale ( la fotografia) che ha una propria autonomia di senso.
Ellen Cantor fotografa libri di antiche favole le cui pagine sembrano scorrere e rincorrersi davanti ai nostri occhi, mentre facciamo fatica a mettere a fuoco la visione. L’inganno della visione rispecchia l’inganno insito in tutte le favole che sono tali proprio perché irreali. Ma in queste opere non si vuole indagare l’aspetto della falsità insita nelle favole, ma piuttosto l’inganno in cui cade l’occhio umano nella sua indagine visiva e visuale dell’oggetto. Da uno sguardo distante e non ravvicinato l’occhio è indotto a convincersi del reale movimento del libro all’interno di una teca di plexiglass, mosso semmai da un meccanismo elettrico in una situazione di tridimensionalità dell’oggetto che sembra reale e in movimento. La realtà è invece altra e da uno sguardo ravvicinato il libro viene scoperto come una fotografia di un oggetto in movimento e non più nella corporeità della sua tridimensionalità. Anche questo è errato in quanto la “verità” celata è quella di una tecnica fotografica di doppia e tripla esposizione su un oggetto statico e non dinamico.
Cantor ci accompagna così in un mondo di verità nascoste e di sovrapposizioni di percezioni, di molteplicità di situazioni visive e immaginarie o di molteplicità di realtà. Realtà supposte e realtà reali.
L’interessante concetto della “dislocazione” è invece il fulcro della ricerca della fotografa milanese Emilia Castioni che indaga il concetto della appropriatezza dell’individuo rispetto alla situazione che lo circonda. Sia in termini temporali che spaziali viene messa in rilievo la collocazione di soggetti e oggetti in situazioni e luoghi non appropriati alla loro identità, rimandando con ciò immediatamente ad un discorso aperto sul tema dell’identità e della sua assenza; un dialogo tra essenza ed assenza, tra perdita, mutamento ed acquisizione di altra o diversa identità che appare molto confacente e calzante alla società contemporanea.
Il bel film di Woody Allen del 2001 dal titolo “La Maledizione dello scorpione di giada” incentra la sua trama sul concetto della doppia identità: l’ investigatore assicurativo serissimo e onesto che viene indotto in ipnosi da un prestigiatore che lo spinge in tale stato a compiere furti sfruttando proprio la sua conoscenza dei sistemi di sicurezza degli appartamenti protetti, è l’emblema di una doppia identità indotta e provocata dall’esterno; un problema di dislocazione e ricollocazione del soggetto in una situazione che normalmente non gli appartiene; una duplicazione o una sovrapposizione di personalità che non è affatto rara nel mondo contemporaneo. Il film pone anche una notazione ulteriore che possiamo fare nostra nell’ambito concettuale che pervade la presente mostra: l’ipnosi, come modo per non vedere la realtà, è una variazione sul tema del contrasto tra mondo concreto e mondo della fantasia; nel finale il protagonista si gode il bacio “prima che l’orrido sipario della realtà cali su di noi”. Una via di fuga oppure un tentativo come tanti di perseguire e vivere una realtà “altra”, diversa dalla quotidianità?
Le opere di Lello Esposito ci conducono invece nel mondo della finzione interpretata e vissuta nella nostra quotidianità. La “maschera” come mezzo di celamento del reale e della verità attinge le sue origini nel teatro greco: dall’antica commedia greca, attraverso la commedia dell’arte italiana, fino alle maschere del carnevale di Venezia, tutto è inganno, tutto è falsità di superficie che rende la realtà diversa dalla verità.
L’ antica dicotomia tra quel che appare e quel che è viene concentrata tutta in una maschera che, celando il volto e con esso i caratteri somatici più immediati e le sembianze più apparenti di un soggetto, ne cela automaticamente l’intera personalità.
Il mondo del teatro come il mondo del cinema sono i mondi dell’illusione: illusione come creazione di verità false o di realtà inesistenti: ma in queste realtà ci si identifica, si soffre e si gioisce insieme agli attori, si recitano spezzoni di vita vissuta e si inscenano situazioni di quotidiana realtà che però non sono altro che finzione. Ed Esposito con le sue maschere ci ricorda costantemente la duplicità del tutto: della persona come della situazione: Pulcinella, come Arlecchino o Pantaleone siamo noi mascherati da “altro” da noi in modo da poter esternare difetti, piccolezze, meschinità e caratterialità che vengono attribuite ad un “altro” che non siamo noi. L’Io è salvo, intatto e inattaccabile.
La maschera ha svolto la sua funzione di copertura, di celamento della verità.
Cosa si cela dietro un “profilo” Facebook a cui apparentemente affidiamo confidenze, sfoghi, giudizi di valore, e situazioni di vita in condivisione con migliaia di altri soggetti? Ci si è mai chiesti quanto di reale ci sia in quei profili e in quelle storie raccontate èpostate”? in realtà siamo di fronte alle nuove maschere del teatro, ad un nuovo teatro di cui siamo sceneggiatori, registi, autori ed interpreti: ma sempre di teatro si tratta: di illusione e non di verità.
Dino Izzo ci propone nelle sue opere una sovrapposizione di scrittura sul ritratto o sul paesaggio nelle quali la percezione di questi ultimi appare sfumata e annebbiata, coperta in parte da scrittura neanch’essa interamente e correttamente leggibile e percepibile. Un mondo avvolto in una specie di nebbia che distanzia l’oggetto della percezione dal soggetto che osserva: la mancanza di nitidezza dell’immagine rispecchia la mancanza di verità di quel che leggiamo e delle notizie che riceviamo: è la nebbia dell’inganno e dell’ambiguità. L’uso da parte dell’artista della scrittura sovrapposta all’immagine la dice lunga sul concetto espresso: oltre che a rappresentare una scrittura illeggibile in sé e un racconto di storie di vita che devono restare sconosciute, rappresenta anche tutta la falsità e la manipolazione della “notizia” come tale cui siamo soggetti.
Le notizie che ci bombardano quotidianamente sui social networks e sui media che valore hanno rispetto alla veridicità del contenuto? È solo un dubbio, ma abbiamo avuto prove a centinaia di come si costruiscano storie del tutto false (le fake news) e di come si manipolino con esse masse di popoli verso scelte non volute e non ponderate.
Izzo denunzia il pericolo di veder sfocare immagini e scritti innanzi ai nostri occhi in modo da non poterne più discernere la messa a fuoco visiva e di contenuto.
Jeff Iorillo rende pittoricamente in una serie completa di 9 opere pittoriche e un video la dicotomia tra fissità e movimento. Da un video girato sul treno Roma-Napoli in un suo recente viaggio in Italia, l’artista Californiano ha tratto l’ispirazione per un dialogo tra fissità della tela dipinta e senso del movimento creato su di essa solo attraverso la bidimensionalità pittorica. Il reale movimento viene reso dal video che affianca tutta la serie di pitture. Lo scorrimento veloce del video che mostra il reale movimento del soggetto agente viene messo in relazione con la fissità della sua rappresentazione pittorica che pure interpreta quel movimento esistente nel video. Un bel contrasto/dialogo tra realtà e sua rappresentazione che è alla base di tanta parte della ricerca artistica.
Barbara Kolo affronta e aggredisce la tela con una infinità di puntini di pittura acrilica in un nuovo “pointillisme” che inganna la visione creando una percezione ravvicinata completamente diversa e ingannevole rispetto a quella da lontano. La scelta del colore del fondo, per lo più bianco o nero, accentua questa sensazione; solo ad una visione ravvicinata ci è dato di scoprire il tratto formato da migliaia di punti di acrilico perfettamente composti dove nulla viene lasciato al caso e tutto procede secondo una rigidità di regole interiori all’artista.
Lo spettatore rimane incerto sulla sua stessa visione dell’opera: apparentemente l’opera si potrebbe liquidare come pittura di paesaggio astratto e l’artista come una paesaggista di nuova generazione: ma non è così perché tutta l’opera della Kolo non parla mai di realtà e raffigurazione: la sua opera è e rimane un puro stato mentale che induce nello spettatore altrettante emozioni e sensazioni da indagare con cautela e accuratezza introspettiva.
Miguel Osuna presenta opere che appaiono tridimensionali e creano effetti ottici di profondità laddove questa è del tutto assente ed irreale. Nel gioco tra realtà e irrealtà che ha spesso caratterizzato il suo lavoro, Osuna è giunto in queste opere alla sua massima espressione di ambiguità della percezione ingaggiando con l’occhio umano una sfida percettiva tra bidimensionale e tridimensionale.
La superficie dell’opera, spatolata e resa brillante e soprattutto uniforme e liscia, all’improvviso si “piega” in una sorta di scavo, di affondo che ci induce immediatamente a toccarla per verificare tattilmente se siamo in presenza di una scultura tridimensionale o di una pittura.
L’occhio viene indotto in errore, il cervello elabora informazioni distorte e non univoche: tutta l’ambiguità della visione emerge per porci domande su quello che stiamo vedendo, sulla certezza della nostra visione e in tal modo, di incertezza in incertezza, proseguiamo nel dubbio che è sempre, per i saggi, momento di crescita.
Amedeo Sanzone lavora un materiale come il lexan che è in sé una superficie specchiante e riflettente che viene dipinta dall’artista dal retro.
Il risultato è un’opera che “lavora” attraverso un duplice comportamento: da un lato riflette la luce e la rimanda verso lo spettatore con un effetto di bounce back verso l’occhio di chi guarda; dall’altro assorbe all’interno di sé, al pari di tutte le superfici specchianti, l’intero contesto circostante immettendolo nell’opera stessa. Lo spettatore diventa attore dell’opera d’arte; si fa protagonista e complice dell’opera mentre nel contempo viene invitato ad indagare sulla propria modalità di percezione dell’opera stessa: al cospetto di essa viene percepita la materia, il colore, lo spazio, la luce riflessa oppure la propria immagine riflessa in essa? Siamo in presenza di una attivazione sensoriale e percettiva duplice e sviante, che lavora tra realtà percettiva e irrealtà della situazione oggettivata nell’opera.
Nicola Torcoli: frammentazione e smembramento non solo visivo, ma reale della tela in centinaia di strisce di canovaccio tagliato, strappato e poi ricomposto a dar vita ad una nuova opera del tutto inedita: una sorta di “mosaico” dove le tessere sono formate da strisce longitudinali derivate dal taglio di precedenti tele dipinte. Queste si atteggiano come le tele “madri” da cui viene data vita ad un unico figlio che contiene i DNA di tutte le precedenti opere. La ricerca di Torcoli si concentra sui concetti di simultaneità e di frammentazione materiale e temporale che si esaurisce infine nell’incertezza dell’atto percettivo nel suo insieme.
Un discorso sul tempo e un gioco sensoriale anche qui tra il” vedere e il percepire “ che fa i conti con la simultaneità della visione nella medesima frazione temporale.
Figlio della società contemporanea a tutti gli effetti, Torcoli accede ad una tecnica per la quale egli seziona, sfrangia, devasta e smembra le tele precedentemente dipinte (le sue tele basiche), per poi ricomporle attraverso i frammenti, ricompattandone così il valore di senso, attraverso un “mutamento”, una mutazione del “passato nel presente”, una modificazione del sistema precedente in uno del tutto nuovo, più scarno, ma “meglio organizzato”.
Infine la rappresentazione artistica così declinata e così svolta contiene in sé tutto lo sfaldamento, lo smembramento e la frammentazione della società contemporanea. Una sorta di “defrag” sociale che necessiterebbe ormai di una vera e totale “ricomposizione” di valore.
Joan Wulf: il formato a griglia spesso usato dall’artista nei suoi lavori permette a Wulf di operare in una struttura “a sistema” che ricorda i mattoni degli edifici rappresentati dai singoli pannelli o elementi, che sottolineano i desideri nascosti degli uomini di conferire ordine a situazioni che percepiscono come inafferrabili.
Wulf indaga il concetto di “impermanenza” attraverso opere “attivate” o realizzate con il fuoco e le bruciature dei materiali. Il fuoco brucia velocemente la carta; le ombre e le dimensioni sono create da cenere che si dissolve con un soffio: tutto deve avvenire molto velocemente e delicatamente perché’ tutto può svanire in un soffio. Tutto è volatile, nulla è per sempre, tutto si può modificare. Elemento fondamentale nell’arte di Wulf diviene il Tempo: sia nell’atto di produzione dell’opera perché’ essa nasce dal bilanciamento temporale e gestuale tra aria e fuoco; sia nell’atto della modificazione che l’opera, come tutto ciò che ci circonda, può subire nel tempo.
Carla Viparelli: nella sua prolifica creatività c’è spazio anche per l’ambiguità del reale. E dove lo va a ricercare l’artista questa volta? Lo trova nel percorso della memoria storica di un paese o di un continente attraverso frammenti e reperti archeologici ritrovati sotto il ghiaccio.
Più che un dipinto si tratta di una storia contratta e riassunta tutta nello spazio di una tela, nella quale un reperto di una antica civiltà viene ritrovato sotto il ghiaccio che man mano, dissolvendosi, lo porta alla luce. Il ghiaccio è stato fonte di conservazione della memoria e fonte di disvelamento di essa.
Come la criogenesi conserva I corpi, il ghiaccio ha conservato la memoria.
Ma il discioglimento del ghiaccio ne palesa solo una parte: parte della memoria rimane ancora nascosta e non accessibile. Metafora della memoria di un popolo che nella sua parziale inaccessibilità (o accessibilità) diventa ambigua, sfocata dal tempo, dagli avvenimenti, dai ricordi, dai racconti tramandati e quindi modificati e confusi.
Perciò il ghiaccio come un velo ne disvela alcuni e ne copre altri. Frammenti, frammentazione della memoria. “Catartica”, afferma l’artista, “è ispirato allo scioglimento dei ghiacci che riporta alla luce qualche cosa di dimenticato e frammentato dalla intermittenza stessa della memoria, sia personale sia ancestrale”.